Per quanto riguarda la regolamentazione del km zero non esiste al momento una vera e propria normativa che ne delinei un profilo. Generalmente per prodotti a “chilometro zero” si intendono quelli reperiti nella zona di produzione, con acquisto diretto dal produttore e con una filiera corta, senza passaggi di intermediari tra produttore e consumatore finale.
La locuzione “chilometro zero”, in ambito agroalimentare, compare la prima volta sul quotidiano “La Repubblica” nell’edizione di Bologna del 6 agosto 2005. L’articolo riporta di una manifestazione locale nel corso della quale venne distribuito un volantino con lo slogan “Gusto, piacere e benessere dalle terre dell’Emilia Romagna”.
Invitava a scegliere prodotti locali, frutta e verdura a “chilometri zero”, con attenzione quindi anche alla riduzione delle emissioni inquinanti.
Altra espressione molto simile a “km zero” è “filiera corta”. Fondamentalmente le due espressioni intendono quasi la stessa cosa: prodotto del territorio con acquisto diretto e minor numero passaggi possibili tra produttore e consumatore.
Un criterio opposto alla filiera lunga della distribuzione organizzata con diversi passaggi commerciali, dal grossista al negozio e al dettaglio.
I vantaggi del Km zero
I punti che meglio evidenziano i vantaggi dell’utilizzo di materie prime del territorio dati dalla “filiera corta” (o km zero) sono tre:
- Riduzione delle sostanze inquinanti derivate dai ridotti spostamenti. Cosa che comporta anche un minor ricorso all’uso di imballaggi e sistemi di conservazione come refrigerazione e confezionamento.
- Migliore qualità, in quanto i prodotti locali sono sempre più freschi e di provenienza regionale. Oltre che una garanzia sull’assenza di materie prime estranee al territorio.
- Abbattimento dei costi, dato dalla mancanza di intermediazioni commerciali e dalla riduzione delle tratte di trasporto.
Volendo applicare il concetto nell’industria agroalimentare, per prodotto a “km zero” si può considerare un alimento realizzato con ingredienti provenienti da luoghi il più vicino possibile allo stabilimento di produzione e privo di materie prime estranee al territorio e originarie di chissà quale altra parte del mondo.
I limiti
Secondo quanto mutuato dalla Coldiretti (fino a poco tempo addietro) il limite massimo che segnava la definizione di un prodotto a Km zero era di 150 chilometri di distanza dal luogo di produzione o, in termini temporali, 2 ore di viaggio su strada.
In data 17/10/2018 però è stata approvata dall’Assemblea della Camera una proposta di legge recante “norme per la valorizzazione dei prodotti agroalimentari a filiera corta e a chilometro zero”, dove viene espressamente fatta richiesta che la suddetta distanza per la materia prima agricola non sia superiore a 70 chilometri (secondo molti operatori un limite che potrebbe rivelarsi eccessivamente restrittivo).
Per inquadrare meglio la cosa riportiamo qui di seguito uno stralcio della proposta:
“Tali prodotti si considerano a chilometro zero o utile quando provengono da luoghi di produzione e di trasformazione della materia prima agricola (o delle materie prime agricole primarie) posti a una distanza non superiore a 70 chilometri dal luogo di vendita, dal luogo di consumo in caso di servizi di ristorazione. Ai sensi della lettera b), sono prodotti agricoli e alimentari provenienti da filiera corta i prodotti la cui commercializzazione è caratterizzata dall’assenza di intermediari commerciali o dalla presenza di un solo intermediario.”
Concludendo possiamo dire che a tutt’oggi una normativa volta a disciplinare la certificazione del “km zero”, o della “filiera corta”, ancora non esiste. La sua attestazione, da parte di un’azienda, resta di fatto esclusivamente su base volontaria.
Dipende unicamente dalla trasparenza della stessa e dalla definizione e dal rispetto dei propri standard operativi.