La vita solitaria del conte Gregorio Casali
Il Conte Gregorio Filippo Maria Casali Bentivoglio Paleotti nasce a Bologna nel 1721. Nel 1750 diventa lettore di Matematica all’Università cittadina, per poi ricoprire la carica di rettore nel 1800, in piena occupazione napoleonica.
Oltre alla tenuta di Monte Vecchio, la sua famiglia possedeva una casa in via Miola, all’angolo con via Castiglione, prima che quest’area fosse abbattuta nell’Ottocento per lasciare spazio all’attuale via Farini. Casali se ne va nel 1802 senza lasciare eredi: in mancanza di figli e nipoti, i cani sono stati a lungo la sua famiglia.
L’amabile Cina
Il primo sonetto è dedicato alla sua cagnolina Cina, un amorevole cane bianco e di piccola taglia, sodale del conte per tutta la sua vita. Forse Cina è una pechinese; ma il suo nome, in realtà, potrebbe essere solo l’abbreviazione di “piccina”, oppure derivare dalla mania settecentesca per le cineserie, manufatti di un certo pregio importati dall’Oriente e molto popolari tra gli aristocratici bolognesi.
Quando la cagnolina, dopo aver vissuto molti anni, arriva agli ultimi giorni della sua vita, il conte la saluta con un ultimo bacio e poi la seppellisce nel giardino della tenuta di Monte Vecchio (oggi Isolani) sui colli bolognesi.
Al posto di una lapide di pietra, Casali mette sopra la tomba di Cina una pianta di rose bianche come il suo pelo.
La moribonda Cina, ahi trista sera!
Per Cina e Tisbino (1796)
A me si volse languida, amorosa;
Le diedi un bacio con bocca affannosa,
E ben mi disse il cor che l’ultim’era.
Perché la cara salma oltre non pera,
Ora tra quest’erbe e questi fior riposa.
Spunti sovra’essa un dì candida rosa
Del color di sua spoglia immagin vera.
Nelle ultime due strofe della poesia Casali immagina che anche i cani, al pari degli esseri umani, siano dotati di un’anima. Non tutto, quindi, sarebbe perduto: resta la speranza che Cina possa rivivere in altra forma e che la sua anima possa incontrare di nuovo, un giorno, quella del conte.
La speranza che anche i cani possiedano uno spirito si rifà alla teoria della metempsicosi formulata dai neopitagorici (VI secolo a.C.). Secondo Pitagora, infatti, dopo la morte l’anima poteva ‘trasferirsi’ in un altro essere vivente umano, animale o vegetale.
Ma la piacevol’Alma, e grata, e amica
Per Cina e Tisbino (1796)
È spenta, è nulla? Od altro investe Obbietto,
Oppinion di Pitagora antica?
Potrem noi rivederci? Oh speme! Oh sorte!
Ravviserolla al suo tenero affetto,
Me conosca al dolor della sua morte.
Il giovane Tisbino
Il secondo sonetto, dal tono più infervorato, ricorda la morte violenta del cane Tisbino. Il suo nome si deve alla cultura classica del conte, che lo trae dal mito di Tisbe, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi. Nell’antica Babilonia, Tisbe e Piramo sono due giovani amanti, costretti a incontrarsi di nascosto a causa dell’ostilità dei genitori.
Un giorno Tisbe arriva in anticipo all’incontro con Piramo e viene aggredita da una bestia feroce. Riesce a scappare, ma semina sul posto un fazzoletto insanguinato. Quando Piramo arriva, crede che la ragazza sia morta e si uccide. Tisbe, scoperto il suicidio dell’amato, si toglie la vita a sua volta. È possibile quindi che il conte abbia scelto il nome del suo cane ispirandosi alla fedeltà di Tisbe.
Tisbino è un cane giovane e affettuoso che va incontro a una tragica fine: muore schiacciato da una carrozza. Incidenti del genere non erano rari nella Bologna tardo-settecentesca, dove le strade erano più strette di quelle odierne e gli animali rischiavano di essere investiti, un po’ come succede oggi con le automobili.
Nei suoi versi, il conte scaglia un’invettiva contro la ruota che ha ucciso Tisbino, colpevole di non essersi fermata davanti ai guaiti dell’animale. Una ruota che deve essere stata guidata da un fato avverso.
Superba, e stolta e furiosa rota,
Per Cina e Tisbino (1796)
Pietà t’arresti alle innocenti grida;
O volgi, e va, se star disdegni immota,
Fallace appoggio alla fortuna infida.
Sorda corre la rea, finché percuota,
Il picciol corpo, e schiacci, e infranga, e uccida.
Sen fugge un Alma al saver nostro ignota,
Ch’esprime, e ascolta obbediente, e fida.
Nel componimento il conte assegna alla ruota colpevole la giusta pena: brucerà per sempre immobile all’Inferno, invidiando il movimento di un’altra ruota, quella a cui è legato in eterno Issione, condannato per aver sedotto Era, moglie di Zeus.
Per Tisbino, invece, l’autore si raccomanda al Cielo che ha già accolto Cina e Avola, cagnolina degli anni giovanili del conte. Di nuovo, dunque, Casali suppone che il suo cane abbia un’anima e che questa sopravviva alla morte.
Cielo, a te il traggi, e il terzo cane avrai,
Per Cina e Tisbino (1796)
Meno acceso, o veloce, e più vezzoso,
Cui guardi l’Orse, e non tramonti mai.
L’empia Rota feral piombi in Inferno,
Immobil’arda e nel fatal riposo
Frema, e invidi Issione, e il giro eterno.
La poesia scritta per Tisbino viene tradotta in latino dal prelato romano Marco Faustino Gagliuffi. Nella versione latina, in forma di epigramma, il religioso esclude ogni riferimento all’anima dei cani, che rischierebbe di entrare in conflitto con la dottrina della Chiesa.
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Nota: la storia di Cina e Tisbino è tratta da Cina e Tisbino, di Gregorio Filippo Maria Casali Bentivoglio Paleotti; per leggere l’originale, scarica il pdf a questo link.